C’è differenza tra l’essere solitari e la solitudine. La prima è cercata, voluta, è una scelta, quasi una necessità. La seconda è una forzatura, una costrizione, provocata non ricercata. L’artista vive momenti da solitario, gli sono utili per attivare, esprimere, fare spazio al processo creativo, ma la solitudine certo non gli fa bene. L’artista, come lo intendo io, vive in mezzo agli altri, non li distanzia, si nutre della vita nella sua comunità, ne osserva linguaggi, comportamenti, attitudini, ne fa tesoro, elementi che rappresentano fonte inesauribile per la personale ricerca, nella maggior parte delle volte questi elementi diventano la sua arte. La quarantena dell’artista forse più che per altri è disorientante. Spiego perché. Parlo della mia personale quarantena. Immaginavo un tempo proficuo per lavorare, ideare, terminare progetti in sospeso. Invece niente! L’isolamento sociale ha represso la spinta propulsiva a fare.
Le prime settimane mi aggiravo per lo studio come un marziano su un pianeta sconosciuto. Non avevo più tempo pur avendone moltissimo, non avevo più spazio pur essendo al centro di un vuoto evidente. Ho vagato tra tele, pennelli, colori, cercando appigli, giustifiche, motivazioni da dare a me stesso sull’assurdo tempo che stavo, e stavamo vivendo. Poi la consapevolezza. Il virus è più forte. Serve rimanere isolati. Alla terza settimana la mia casa atelier mi è sembrata più mia, e con questa sensazione le giornate diventavano meno sospese, più progettate. Avevo una routine. Dormo poco. La sveglia è alle cinque del mattino, caffè in una tazza fatta di silenzio, poi la luce, arriva, dirompente, in una primavera la più bella degli ultimi vent’anni. Meditazione, preghiera del cuore, tra le pieghe della luce sul pavimento a scacchi del mio studio. Doccia, vestiti, libri. Fatta la scelta, trascrivo la frase del giorno sul mio diario. Poi le video lezioni (sono insegnate in un liceo artistico di Roma) gli studenti che mi riempiono di domande. Risposte che generano altre domande. Torna il pranzo sulla mia tavola, da tempo non apparecchiavo per il pranzo il mio bel tavolo francese nero, ho una stanza da pranzo che non uso mai. Ore quindici, vita da studio. Leggo, ritaglio, osservo l’acquedotto romano dalla mia finestra, faccio degli schizzi, scrivo progetti, mia madre che mi telefona per dirmi che mi vuole bene, pennelli, colori, sporco qualche foglio, archivio le tele. Il bollitore Alessi fischia col suo uccellino che mi fa tanto ridere. Al balcone danno l’inno l’Italia, lo sussurro a bassa voce. Sono solo, ho paura di rompere il silenzio. Dipingo, uomini, donne, nudi, paesaggi metafisici, croci, composizioni, mi sento stanco e mi addormento in poltrona. E’ sera. Ascolto i miei cd da collezione dell’Opera ancora col cellophane. Dipingo ancora. Attendo che il colore asciughi e mangio cioccolato. Messaggi, infiniti messaggi, il mondo vuole parlarmi, mi cerca, il mio telefonino è caldo. Rispondo quando col messaggio arriva la sensazione di verità. Notte, dolce amica. Finalmente la notte. Il rito delle lampade e la casa prende vita. Strano, ma mi sento stanco. E’ troppo bello qui. Mi piacerà ancora la vita là fuori? Massimiliano Ferragina
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“L’aria è simbolo di libertà. Quando diciamo -mi manca l’aria- indichiamo una condizione di soffocamento, di repressione, sottomissione, di privazione della propria libertà. Il confinamento, il distanziamento sociale, sono condizioni contro natura per l’essere umano, è perdita del respiro vitale. L’aria nelle nostre vite, nelle nostre case, nei nostri polmoni diventa pesante, diventa cemento, diventa muro. L’opera, densa di colore, pastosa nei suoi bianchi e blu, astrae in un processo rapido la perdita di fiato, è impossibile respirare aria solida, anche la luce diventa pesante, bianca e densa, una malta fatta di aria e luce che costringe a ripensare il proprio habitat, a stare fermi, immobili, chiusi. Il respiro è udibile, visibile, schiacciante. L’aria pesa. Possiamo certamente sopportare un respiro pesante ma a quale costo?”. Massiimiliano Ferragina